Direttore generale e autonomia dell’Azienda sanitaria: alcuni spunti per una riflessione
Premessa
Il direttore generale dell’Azienda sanitaria è indubbiamente una figura centrale nel governo del sistema. Al tempo stesso, tuttavia, o forse proprio per questo, la sua funzione e i suoi poteri sono oggetto di tensioni che si esprimono in scelte di regolazione che a livello statale, ma anche regionale, manifestano il mancato consolidarsi di una idea condivisa sul suo ruolo.
Il problema non sta solo, per così dire, nel direttore generale, ma occorre allargare lo sguardo al sistema di dinamiche ed equilibri nel quale interpreta le sue funzioni.

In particolare appare innegabile lo stretto collegamento fra l’idea di un direttore generale come manager pubblico e quella dell’autonomia dell’azienda che è chiamato a dirigere. Una autonomia sulla quale la riforma nazionale ha investito molto, ma alla quale non sempre le Regioni hanno creduto, non di rado percependola come un elemento estraneo alla governance del sistema sanitario regionale. Anche le aziende spesso non hanno impiegato l’autonomia per costruire una organizzazione intorno alle esigenze degli utenti, del servizio, dei professionisti e, di conseguenza, ad alto tasso di responsabilità, percependola invece come una risorsa che il direttore impiega governando il sistema in maniera monocratica e accentrata.
Ciò è dipeso in buona parte dalla mancata percezione della portata reale di questa autonomia, improvvidamente definita dalla legge come imprenditoriale e interpretata come un elemento “di rottura” rispetto alla qualità pubblica del servizio sanitario. Una autonomia non di rado vissuta male, quindi, e che ha ostacolato l’emersione di una managerialità propriamente pubblica squilibrando il sistema e portandolo a tentare pressioni indebite, come nel caso dello spoils system, o a cercare di contrastarle, come nel caso del recente intervento sulla disciplina degli incarichi di direzione generale.
L’ipotesi che si vuole qui formulare è che a ben intendere l’autonomia come strumento di governo di un sistema di servizio che è e resta pubblico, probabilmente anche la managerialità del direttore generale ha ancora potenzialità inespresse e da esplorare.
La managerialità “pubblica”
L’idea di un direttore generale manager dell’azienda sanitaria nasce nel quadro di un sistema pubblico che a partire dagli anni ’90 decide di investire sulle qualità del personale dirigenziale per farne il motore di un rinnovamento che muove dall’interno delle amministrazioni e che scommette su un certo margine di flessibilità organizzativa che il dirigente gestisce in autonomia per migliorare le performance dei pubblici servizi1.
In campo sanitario questo modello è, per così dire, estremizzato attraverso l’aziendalizzazione2. Si può veramente comprendere cosa si debba intendere per aziendalizzazione e per autonomia imprenditoriale delle aziende (scelte spesso criticate più sulla base degli scenari evocati dalle parole che per le conseguenze effettive che ad esse riconduce l’ordinamento) solo se si leggono nel quadro di una complessiva riforma del sistema amministrativo e quindi come gradi più avanzati di quanto accade in quegli stessi anni anche nelle altre amministrazioni, comprese quelle cosiddette tradizionali (i ministeri, le regioni, gli enti locali).
Questa impostazione ha delle conseguenze importanti perché permette di inquadrare correttamente aziendalizzazione e autonomia imprenditoriale come presupposti di una innovazione capace di migliorare il livello di qualità ed insieme sostenibilità del sistema sanitario attraverso una managerialità propriamente pubblica3. Una managerialità, cioè, alla quale si chiede di governare in maniera innovativa un servizio che realizza un diritto costituzionale fondamentale senza tradirne il senso, ma anzi interpretandolo appieno e fornendogli quella effettività che realizza pienamente le pretese che mira a soddisfare. Il motore/attore di questa innovazione è il direttore generale4, al quale si chiede di affrontare con approccio “manageriale pubblico” l’organizzazione e il funzionamento dell’azienda attraverso la sua riorganizzazione con l’atto aziendale di diritto privato5.
La scelta di riconoscere natura privatistica ad un atto di organizzazione che va ben oltre la cosiddetta microorganizzazione (ovvero quel margine operativo nella gestione di uffici e personale che in tutte le amministrazioni pubbliche è oggi appannaggio del dirigente privato datore di lavoro) indica la qua lità della decisione che è propria del direttore, assunta in autonomia, libera, se pur nei limiti ad essa lasciati dalla legge e dalle scelte della Regione, e della quale solo il direttore risponde direttamente.
Perché decisioni organizzative importanti, come sono quelle relative anche alla macroorganizzazione, in quanto capaci di ridisegnare l’azienda in profondità, siano effettivamente “proprie” del direttore, da lui “liberamente” assunte con atto di autonomia privata, la legge ha dovuto individuare un meccanismo che consentisse anche giuridicamente tutto questo e tale meccanismo è stato racchiuso nella previsione per cui “tutti i poteri di gestione… sono riservati al direttore generale”6. Tale previsione normativa va intesa quindi come strumentale all’obiettivo dell’autonomia organizzato-ria: il senso dell’aggettivo imprenditoriale non va oltre questo, indica, cioè, l’inerenza dell’autonomia all’organizzazione dei mezzi produttivi. Il direttore non può, né deve assumere tutte le decisioni. A lui tutti i poteri gestionali appartengono, per così dire, “astrattamente”, affinché possa decidere il modo di distribuirli fra gli altri organi dell’azienda nell’esercizio, per l’appunto, della propria autonomia. In altre parole, si può disporre liberamente solo di ciò che è proprio e i poteri gestionali sono qualificati dalla legge come propri del direttore affinché egli possa disporne la distribuzione fra i responsabili delle partizioni organizzative in cui è articolata l’azienda.
Ecco definito il meccanismo del rapporto fra autonomia imprenditoriale dell’azienda e managerialità: con l’atto aziendale di diritto privato il direttore organizza l’azienda distribuendo le responsabilità gestionali e i poteri che per legge gli appartengono e realizzando una organizzazione capace di rispondere in maniera effettiva alle esigenze di servizio che è chiamata a soddisfare.
Ma questo meccanismo ha funzionato davvero così? Quale è in realtà la figura di manager che oggi le aziende sanitarie regionali descrivono e, quindi, richiedono?
La risposta è articolata perché in buona parte dipende da come le Regioni hanno inteso l’autonomia imprenditoriale delle aziende e da come nelle aziende è stata interpretata la riserva al direttore di tutti i poteri di gestione.
Modelli regionali di autonomia imprenditoriale delle aziende sanitarie
A grandi linee e molto semplificando si può dire che a livello regionale si manifestino due modalità di intendere l’autonomia imprenditoriale delle aziende sanitarie: una prevalente, in cui l’autonomia appare essenzialmente compressa, perché percepita come elemento di discontinuità e, in alcuni casi, di frattura con il governo regionale; un’altra minoritaria, ma in espansione, in cui l’autonomia è invece valorizzata, perché percepita come strumento di governo e di responsabilizzazione delle aziende.
Gli esempi delle due tendenze sono evidenti in molti tratti dei sistemi regionali7. Per rapidità possiamo fare riferimento alle scelte fatte in questi anni con l’obiettivo della razionalizzazione organizzativa dei modelli sanitari con finalità di contenimento della spesa8. Nella prima tendenza (quella che va dalla aperta limitazione, fino al rifiuto dell’autonomia aziendale) si inscrivono quelle soluzioni re gionali che in questi anni hanno scelto la via della sottrazione alle aziende di parti dell’organizzazione (con particolare riferimento ai servizi intermedi e di supporto) che migrano verso il centro, non di rado finendo per essere affidati a strutture nelle quali la regione si ricolloca come amministrazione operativa e non solo di indirizzo e programmazione. Una razionalizzazione per accentramento, insomma.
Ecco allora i consorzi fra aziende trasformati in enti pubblici regionali (anche in forma di agenzie) e portati in questo modo sotto la direzione regionale; i casi di aggregazioni funzionali sovra-aziendali, la cui governance è fortemente incisa dal protagonismo regionale (attraverso, ad esempio, la presenza negli organi di vertice dell’assessore e del direttore regionale della sanità) o altri casi significativi, come quello umbro delle reti cliniche, la gestione tecnico amministrativa delle quali è passata dal comitato di direzione composto dai direttori aziendali alla Direzione regionale della sanità.
Nella seconda tendenza, come si accennava, minoritaria, ma in espansione, si inquadrano invece quelle esperienze che valorizzano proprio l’autonomia aziendale come strumento di razionalizzazione organizzativa e riduzione dei costi della sanità regionale. I casi sono, non a caso, di buon successo, come quello degli enti di gestione di Area Vasta in Toscana (che hanno sostituito i precedenti consorzi di area vasta che esercitavano compiti di acquisizione di beni strumentali, logistica e gestione degli stessi, nonché coordinamento dei nuclei interaziendali di formazione del personale) e delle aree vaste in Emilia-Romagna, soggetti giuridici, frutto dell’autonomia aziendale che non danno luogo ad un ulteriore livello istituzionale rispetto a quello delle aziende e che quindi non si contrappongono all’autonomia, ma ne consolidano e sviluppano le prerogative. Sempre in Emilia-Romagna, ma non solo, sono significative le recenti esperienze di semplificazione e razionalizzazione interaziendale realizzate attraverso i dipartimenti di assistenza farmaceutica. Anche qui ci troviamo di fronte a soluzioni promosse a livello regionale, ma costruite e realizzate investendo sull’autonomia aziendale e, quindi, sulla capacità manageriale della direzione generale.
Modelli aziendali di autonomia imprenditoriale
Veniamo ora alle aziende per verificare come al loro interno è vissuta e interpretata l’autonomia imprenditoriale e quindi la managerialità del direttore. Anche qui gli elementi che si possono prendere in considerazione sono diversi: dalle capacità di differenziazione organizzativa mostrate dai direttori generali attraverso gli atti aziendali, al rinnovo o meno degli atti stessi in occasione dell’insediamento di un nuovo direttore generale. Un efficace punto di osservazione riguarda tuttavia il modo in cui la riserva al direttore generale di tutti i poteri di gestione è stata intesa nell’articolazione delle competenze gestionali all’interno dell’azienda9.
Dall’esame degli atti aziendali emergono due tendenze significative non a caso collegate con le impostazioni regionali sopra viste.
Dove è la regione per prima a non credere nelle potenzialità di una effettiva autonomia organizzativa espressa dal management aziendale, non è raro che anche le scelte dell’azienda tendano ad interpretare di conseguenza il ruolo del direttore: l’autonomia imprenditoriale non viene intesa come strumento di organizzazione e razionalizzazione dei processi decisionali interni, ma come accentramento in capo al direttore di tutti i poteri decisionali relativi alla gestione.
Ci si trova così di fronte ad un direttore con pochi margini per fare il manager, che si trova a dirigere un’organizzazione in buona parte definita altrove ed è al vertice non per far funzionare, ma per fare, gestendo molto e spesso governando poco.
L’atto aziendale riflette tutto questo, ripetendo la riserva al direttore di tutti gli atti di gestione e rimettendo la dimensione (variabile) delle competenze riconosciute agli altri livelli dirigenziali alle deleghe decise di volta in volta dal direttore negli atti di assegnazione dell’incarico dirigenziale.
Non di rado in questi modelli l’atto aziendale contiene un elenco di compiti non delegabili e quindi necessariamente propri del direttore, che vanno ben oltre le funzioni di governo strategico dell’azienda e prevede che la delega ai dirigenti debba essere limitata nel tempo e sempre revocabile. Se poi si scende ad esaminare quali atti adotta effettivamente il direttore generale se ne trovano molti di minuta gestione: liquidazione di fatture, microgestione del personale di comparto, rimborsi spese, autorizzazione alla partecipazione di dipendenti ad iniziative formative, dichiarazione di fuori uso di apparecchiature medicali, concessione di spazi per l’installazione di distributori automatici di prodotti alimentari e non, ecc. Gli atti direttoriali arrivano qualche volta al 200% o addirittura al 300% degli atti adottati da tutti gli altri dirigenti messi insieme.
Quando invece anche a livello regionale l’investimento sull’autonomia imprenditoriale delle aziende è maggiore, anche la figura del direttore generale che emerge a livello aziendale ne risente, qualificandosi come quella di un manager che governa un sistema con le leve dell’organizzazione e della programmazione, senza fare minuta gestione. Ciò appare evidente in quelle esperienze in cui le competenze del direttore sono effettivamente limitate a quelle di governo strategico e l’atto aziendale viene impiegato come strumento effettivo di organizzazione dinamica della struttura, attraverso la previsione di compiti propri dei dirigenti e ad essi riservati.
La certezza dei ruoli e la funzione di governo organizzativo del funzionamento aziendale sono massimizzate in quei casi in cui è lo stesso atto aziendale ad individuare le competenze collegate alla direzione delle strutture e a prevedere che la preposizione ad esse vale automaticamente come delega al relativo esercizio. Questo contribuisce ad attribuire maggiore certezza alla distribuzione dei compiti e tendenzialmente corrisponde ad una maggiore propensione complessiva dell’organizzazione al decentramento decisionale e delle responsabilità.
Un direttore che organizza molto, fa più strategia che gestione e valorizza le capacità gestionali del resto della dirigenza, ridisegnando il sistema intorno alle esigenze del servizio alla collettività.

Modelli aziendali di autonomia imprenditoriale
Veniamo ora alle aziende per verificare come al loro interno è vissuta e interpretata l’autonomia imprenditoriale e quindi la managerialità del direttore. Anche qui gli elementi che si possono prendere in considerazione sono diversi: dalle capacità di differenziazione organizzativa mostrate dai direttori generali attraverso gli atti aziendali, al rinnovo o meno degli atti stessi in occasione dell’insediamento di un nuovo direttore generale. Un efficace punto di osservazione riguarda tuttavia il modo in cui la riserva al direttore generale di tutti i poteri di gestione è stata intesa nell’articolazione delle competenze gestionali all’interno dell’azienda9.
Dall’esame degli atti aziendali emergono due tendenze significative non a caso collegate con le impostazioni regionali sopra viste.
Dove è la regione per prima a non credere nelle potenzialità di una effettiva autonomia organizzativa espressa dal management aziendale, non è raro che anche le scelte dell’azienda tendano ad interpretare di conseguenza il ruolo del direttore: l’autonomia imprenditoriale non viene intesa come strumento di organizzazione e razionalizzazione dei processi decisionali interni, ma come accentramento in capo al direttore di tutti i poteri decisionali relativi alla gestione.
Ci si trova così di fronte ad un direttore con pochi margini per fare il manager, che si trova a dirigere un’organizzazione in buona parte definita altrove ed è al vertice non per far funzionare, ma per fare, gestendo molto e spesso governando poco.
L’atto aziendale riflette tutto questo, ripetendo la riserva al direttore di tutti gli atti di gestione e rimettendo la dimensione (variabile) delle competenze riconosciute agli altri livelli dirigenziali alle deleghe decise di volta in volta dal direttore negli atti di assegnazione dell’incarico dirigenziale.
Considerazioni conclusive
Nel panorama nazionale, come sopra considerato, a prevalere sono le visioni regionali ed aziendali del rapporto fra autonomia imprenditoriale dell’azienda e managerialità del direttore che testimoniano una diffidenza dei governi della Regione per la prima e una tendenza dei direttori ad esprimere la propria funzione di vertice nella gestione, piuttosto che nell’organizzazione.
Una autonomia negata e una managerialità non pienamente interpretata, dunque.
Naturalmente si tratta di tendenze strettamente collegate. Le Regioni che non investono nell’autonomia aziendale producono direttori che non esprimono il loro ruolo direttivo nell’organizzazione, ma nel rapporto con il resto della dirigenza aziendale attraverso un forte accentramento della potestà decisionale. Si delinea in questo modo una figura di manager diversa da quella immaginata dal legislatore e sottoposta a straordinarie pressioni che incidono sulla funzionalità del sistema e sulla tenuta della distinzione fra indirizzo politico regionale e gestione aziendale10.
I tentativi di alcuni legislatori regionali di coinvolgere i direttori nelle dinamiche dello spoils system sono significativi11. Se il direttore non è concepito come l’interprete di una autonomia alla quale la regione crede e sulla quale investe, ma finisce per essere un super-gestore con tutte le competenze, è inevitabile che la “cattiva” politica si adoperi per continuare attraverso di esso ad incidere sulla minuta gestione della sanità.
Non è un caso che il legislatore nazionale abbia sentito l’esigenza di intervenire di nuovo sul fronte delle modalità di scelta del direttore generale, attraverso la riformulazione dell’articolo 3-bis del d.lgs. 502 e la previsione di una selezione per l’accesso all’elenco degli idonei nominabili. Nella re lazione illustrativa al provvedimento che introduce tale novità, il d.l. 158 del 2012, viene chiarito come questa voglia essere una risposta al fatto che “una quota rilevante dell’inefficienza organizzativa che ha caratterizzato la conduzione del Servizio sanitario in molte realtà regionali trova una delle sue cause proprio nelle distorsioni che hanno caratterizzato la selezione e la scelta… dei direttori generali”.
Naturalmente è da accogliere con favore la decisione di investire su una garanzia di qualità professionale degli aspiranti all’incarico di direttore, ma probabilmente la soluzione delle distorsioni non sta tanto e non sta solo nel limitare il potere regionale nella scelta del direttore generale delle aziende sanitarie, quanto piuttosto su un investimento reale nella capacità di un manager pubblico di qualità di governare un sistema complesso facendo scelte che ne massimizzino le potenzialità, ne migliorino le prestazioni e ne rendano al tempo stesso sostenibili i costi. Tutto questo non è possibile se non si crede e non si investe innanzi tutto sull’autonomia delle aziende come strumento di governo virtuoso della sanità pubblica.
Alessandra Pioggia
Professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi di Perugia.
Insegna Diritto sanitario e dei servizi sociali e Management Pubblico.
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(1) I lavori che si occupano di dirigenza nella prospettiva del ruolo di quest’ultima nella trasformazione dell’amministrazione pubblica sono diversi, fra questi possono richiamarsi ricordarsi F. Merloni, Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Bologna, 2006;
P. ceRbo, Potere organizzativo e modello imprenditoriale nella pubblica amministrazione, Padova, 2007; M. sgRoi, Dalla contrattualizzazione dell’impiego all’organizzazione privatistica dei pubblici uffici, Torino, 2006; M. Cresti, Efficienza e garanzie nell’evoluzione dell’organizzazione statale, Milano, 2006; G. D’alessio, La disciplina della dirigenza pubblica: profili critici ed ipotesi di revisione del quadro normativo, in Lav. Pubbl. Amm., 2006, p. 549.
(2) Per un inquadramento complessivo della riforma del sistema sanitario sotto il profilo dell’aziendalizzazione si vedano F.a. Roversi Monaco, (a cura di), Il nuovo Servizio Sanitario Nazionale, Rimini, 2000; R. Balduzzi, G. Di Gaspare (a cura di), L’aziendalizzazione nel d.lgs. 229/99, Milano, 2001; G. cilioNe, Diritto sanitario, Rimini, 2003, passim, spec. pp. 149 ss.; E. Jorio, Diritto sanitario, Milano, 2005, pp. 149 ss.; G. Fiorentini, I servizi sanitari in Italia 2003, Bologna, 2003, passim, spec. pp. 142 ss.; R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Torino, 2007; A. Pioggia, M. Dugato, g. Racca, S. Civitarese Matteucci (a cura di), Oltre l’aziendalizzazione del servizio sanitario. Un primo bilancio, Roma, Franco Angeli, 2007.
(3) A. pioggia, La managerialità nell’azione amministrativa, in F. Merloni, R. segatori, A. Pioggia, L’amministrazione sta cambiando?, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 117 ss.; P. Cerbo, Potere organizzativo e modello imprenditoriale nella pubblica amministrazione, cit., passim, spec. pp. 201 ss.
(4) G. Sciullo, Ruolo e responsabilità della dirigenza nel Servizio sanitario nazionale, in San. Pubbl., 1995, p. 837; E. Jorio, F. Jorio, Il direttore generale delle aziende della salute, in Rass. Dir. farm., 2000.
(5) C.E. Gallo, Natura e funzione dell’atto aziendale nell’organizzazione delle aziende sanitarie locali, in Pol. San., 2001, p. 25; G. cilio-Ne, M.G. Cavallari (a cura di), L’atto aziendale di organizzazione e fun¬zionamento delle aziende sanitarie, Bologna, Spisa, 2002; L. Viappiani, L’aziendalizzazione sanitaria e il ruolo dell’atto aziendale, in San. Pubbl. Priv., 2008, pp. 52 ss.
(6) In questo senso l’art. 3, comma 6 del d.lgs. 502 del 1992 nella versione vigente.
(7) Per un’analisi del rapporto fra vincoli regionali e autonomia aziendale si veda B. Ponti, L’atto aziendale e i vincoli regionali all’autonomia imprenditoriale delle ASL/AO: la differenziazione organizzativa come test del processo di aziendalizzazione, in A. Pioggia, M. Dugato, G. Racca, S. Civitarese Matteucci (a cura di), Oltre l’aziendalizzazione del servizio sanitario. Un primo bilancio, cit., p. 49.
(8) Su cui si veda, più ampiamente, A. Pioggia, Razionalizzazione organizzativa in sanità: quali modelli, in C. Bottari, F. Foglietta, L. Vandelli (a cura di), Welfare e servizio sanitario: quali strategie per superare la crisi, Rimini, Maggioli, 2013, p. 61; ma anche S. aNtoNiazzi, Governance territoriale e nuovi modelli di organizzazione sanitaria, in P. Bilancia (a cura di), Modelli innovativi di gover-nance territoriale, Milano, Giuffrè, 2011, p. 298; R. balduzzi (a cura di), Trent’anni di Servizio Sanitario Nazionale, Bologna, Il Mulino, 2009; C. Marzuoli, Uniformità e differenziazione: modelli di organizzazione sanitaria a confronto, in Catelani – G. Cerrina Feroni –
M.C. Grisolia (a cura di), Diritto alla salute tra uniformità e differenziazione. Modelli di organizzazione sanitaria a confronto, Torino, Giappichelli, 2011.
(9) Per una analisi più dettagliata di tali aspetti si veda A. Pioggia, Direzione e dirigenza nelle aziende sanitarie. Una analisi della distribuzione del potere decisionale alla luce degli atti aziendali, in San. Pubbl. Priv., 2008, p. 5.
(10) F. Merloni, Gli incarichi dirigenziali nelle ASL fra fiduciarie¬tà politica e competenze professionali, in A. Pioggia, M. Dugato, G. Racca, S. Civitarese Matteucci (a cura di), Oltre l’aziendalizzazione del servizio sanitario. Un primo bilancio, cit., p. 100.
(11) Si veda, ad esempio, il caso deciso da Corte costituzionale 23 marzo 2007, n. 104.